Gente di fabbrica

Paolo Gasparini da Ouvrier
Per me, me personalmente, ecco che cosa ha voluto dire lavorare in fabbrica. Ha significato che tutte le ragioni esteriori (prima le consideravo interiori) su cui per me si fondavano il sentimento della mia dignità, il rispetto di me stessa sono state in due o tre settimane radicalmente spezzate sotto il colpo di una costrizione brutale e quotidiana. E non credo che siano nati in me dei movimenti di rivolta. No, al contrario la cosa al mondo che mi sarei aspettata di meno da me stessa – la docilità. Una docilità da bestia da soma rassegnata. Mi sembra che io sia nata per aspettare, per ricevere, per eseguire ordini – che non avevo mai fatto altro che questo – che non avrei mai fatto altro che questo. Non sono fiera di confessarlo.
E il tipo di sofferenza di cui nessun operaio parla: fa troppo male persino pensarci.
Quando la malattia mi ha costretta a fermarmi, sono diventata pienamente cosciente dell’abisso in cui sono caduta, ho giurato a me stessa di sopportare questa esistenza fino al giorno in cui sarei riuscita, nonostante tutto, a riprendere il controllo di me stessa. Ho mantenuto la parola data. Lentamente, nella sofferenza, ho riconquistato attraverso la schiavitù il sentimento della mia dignità di essere umano, un sentimento che questa volta non si basa su niente di esterno, e sempre accompagnato dalla consapevolezza che non ho diritto a nulla, che ogni istante libero dalle sofferenze e dalle umiliazioni deve essere ricevuto come una grazia, come il semplice effetto di casi favorevoli.
Ci sono due fattori, in questa schiavitù: la rapidità e gli ordini. La rapidità: per "arrivarci" bisogna ripetere movimento dopo movimento con un ritmo che, essendo più rapido del pensiero, impedisce non solo il corso della riflessione ma anche del sogno. Mettendosi davanti alla macchina, è necessario uccidere la propria anima per otto ore al giorno, i proprio pensieri, i propri sentimenti, tutto. Se si è irritati, tristi, disgustati, bisogna liberarsene, ricacciando tutto al fondo della propria irritazione, tristezza o disgusto: rallenterebbero il ritmo. Anche la gioia. Gli ordini: dal momento dell’entrata a quello dell’uscita, si può ricevere qualsiasi tipo di ordine. E bisogna sempre tacere ed obbedire. L’ordine può essere faticoso o pericoloso, o addirittura ineseguibile; o allo stesso tempo due capi possono dare ordini contraddittori; non importa: si tace e ci si piega. Rivolgere la parola a un capo – anche per una cosa indispensabile – significa sempre, anche nel caso si tratti di un tipo coraggioso, esporsi a farsi redarguire; e quando questo arriva, bisogna ancora tacere.
Simone Weil, Lettres à Albertine Thèvenon (la traduzione è mia)
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